Biografia

La mia azione nei confronti delle culture artistiche africane e asiatiche è sempre stata orientata dalla ricerca dell’originalità e dell’audacia visuale. Si trattasse di tappeti di guerra afghani o di stuoie mauritane, di arte contemporanea della Mongolia o della Casamance, il mio scopo è stato quello di scoprire e promuovere linguaggi poco noti, capaci di rompere la logica visiva consueta, fosse pur quella dell’arte contemporanea occidentale. E’ comunque sull’esemplarità di quest’ultima che si è calibrata la mia attenzione, giacché mi sono ampiamente occupato di “avanguardie negative” occidentali quali fluxus, poesia visiva, lettrismo, organizzando mostre e scrivendo libri. Nei tanti viaggi in Asia e Africa ho trovato, dunque, ciò che cercavo, sebbene ogni scoperta non abbia mai cessato di sorprendermi.
Tra catastrofi politiche (la sconfitta dei movimenti della sinistra radicale in cui negli anni ’70 militavo pur tra varie altre distrazioni) e nuove euforie, dopo qualche soggiorno mediorientale, tra cui l’incrocio in Libano con l’assai poco pacifica “pace in Galilea” (1982) e la pratica di un traffico più avventuroso che remunerativo di reperti archeologici con Etienne Abboud, avevo cominciato a occuparmi d’arte contemporanea. D’altronde le avanguardie del ‘900, al DAMS in cui mi ero laureato nel 1978 dopo aver trascorso a Bologna alcuni anni come si deve, erano state capaci di appassionarmi. Non a caso la mia tesi di laurea fu sul teatro dada (Dada tra il teatro e la vita). Scritta sotto l’influsso delle tesi dell’Internazionale Situazionista, quando andai a discuterla mi valse il radicale abbassamento della media esami, una camera di consiglio che si protrasse per varie ore e un articolo sul giornale locale, giacchè l’evento di abbassamento della media voti aveva avuto solo un precedente lontano. Se tuttavia il vento delle avanguardie storiche risuonò nella professione di critico d’arte, che prese forma faticosamente qualche anno dopo, era anche indubbio che non sapessi cos’altro fare. A convincermi che con l’arte ci potevo persino campare fu un grande amico, Giorgio Cortenova (uno dei miei sette padri, come mi rivelò qualche anno dopo un indovino di Chitral, che mi fece interpretare per “padre”, oltre a quello naturale, Tiberio, altri sei che avessero la caratteristica di essere più grandi di me e che fossero capaci d’insegnarmi qualcosa). Cercando uno spazio d’azione non particolarmente affollato e che fosse nelle mie corde curiose del mondo, cominciai a studiare le relazioni tra l’arte tribale e le avanguardie; territorio tuttavia disseccato, su cui non c’era più molto da dire e tanto meno da scoprire, giacchè ruggiva l’epoca in cui ognuno, in specie in occidente, aveva accesso all’archivio completo di tutto ciò che era accaduto nell’arte di ogni tempo e luogo. Cortenova mi propose di curare, per amicizia e fuori da ogni schema e perchè di fatto non se ne stava occupando nessun’altro, la sezione”arte tribale” della mostra Modigliani a Montparnasse (1987).
Precedentemente l’incontro casuale con un vecchio amico (Alberto Forlivesi) e con la sua nuova fidanzata mi aveva immesso, quasi senza accorgermene, nel circuito dell’arte contemporanea, giacchè la fanciulla in questione, Daniella Leonardi, era la figlia di uno tra i grandi scultori del secondo novecento, Leoncillo, scomparso nel 1968 e la cui opera non godeva allora di gran salute, ma su cui (anzi, proprio per questo) mi chiese di escogitare qualche mostra decente. L’amicizia con l’altro figlio di Leoncillo, Leonetto, fece il resto. Tra l’altro, sia detto di sfuggita ma nemmeno tanto, di Leoncillo tutt’ora vengo accreditato come il maggiore esperto. Tramite il padre di Forlivesi, già comandante partigiano sulla Linea Gotica, conoscemmo il suo antico commilitone Mario Roffi, che da sindaco di Ferrara e munito intellettuale si appassionò al progetto e ce lo fece mettere in pratica al Palazzo dei Diamanti di Ferrara (1983). Dopodichè lo spostammo a Spoleto, patria di Leoncillo (e del sottoscritto, nonché pure di Forlivesi). Fu attraverso Leoncillo che nel 1985 si saldò dunque la prima collaborazione con Cortenova, direttore di Palazzo Forti di Verona, e la mia definitiva immissione, pur a corrente alternata (e alternata da qualche vecchio progetto che si stava dissipando lasciando tuttavia qualche traccia anche nei miei nuovi interessi) nel circuito dell’arte contemporanea. Allora Palazzo Forti era il maggior palcoscenico italiano delle avanguardie europee.
L’interesse per l’arte contemporanea africana nacque invece dalla complicità con Sarenco, protagonista dell’avanguardia poesia visiva, trasferitosi in Africa e affascinato da vari artisti locali, sia per le qualità d’indubbia freschezza di un’arte che aveva ancora l’esigenza di raccontare, in faccia a quella occidentale, da tempo alle prese con tagli e cuciture, che per quel carattere di destino che egli trovava nella gente dell’Africa. Personaggio funambolico, dissipatore di patrimoni (suoi ma anche di altri), comunque tra i migliori cinque artisti della sua generazione (non ho mai saputo dire chi potrebbero essere gli altri quattro), Sarenco sapeva emozionarsi come un bambino per i progetti più avventurosi pur non perdendo mai di vista la possibilità di trasformarli in business. Mentre egli era già assai noto sia come artista che come mercante di dada e surrealismo, la collocazione del sottoscritto nel milieu dell’arte contemporanea (siamo intorno alla fine degli anni ’80) era precaria e in fondo ancora saltuaria, nonostante godessi di una reputazione che attraverso alcune mostre di rilievo (oltre a quelle con Cortenova fu decisiva la collaborazione e l’amicizia con Fabio Sargentini) e l’aria che mi davo di saperla lunga, veniva considerata buona, dove nel termine in questione non entrava il giudizio su quanto organizzassi e tanto meno su cosa scrivessi. In altre parole venivo considerato uno che aveva un certo potere nelle questioni dell’arte, che in piena “Milano da bere” era ritenuta la sola cosa da prendere in considerazione. A voler essere pignoli c’era pur qualcosa di vero, perchè grazie a mia madre Giuliana, sarta di una reputazione ben più salda che la mia e pronta a tutto pur di aiutare mia sorella Maria Laura e il sottoscritto nelle imprese più scriteriate, avevo conosciuto e moderatamente frequentato una serie di signore dell’alta società italiana, che come l’intelligente e generosa Marta Marzotto mi permettevano l’accesso a collezioni e artisti. Tra questi naturalmente Guttuso, di cui organizzai con Cortenova (1988) la prima mostra postmortem con il successo che si può immaginare, visto che si era nella fase più calda dello scontro tra la Marzotto e la cordata Trombadori-Cardinale Angelini, cosicché l’ormai ben nota amante di Guttuso ci mise polemicamente a disposizione anche i ca. 100 disegni erotici che Guttuso le aveva dedicato e in cui troneggiava in molteplici varianti di un unico tema – tant’ che la sezione fu vietata ai minori di 18 anni e rinchiusa in una stanza a luci soffuse, la qual cosa, naturalmente, non fece che scatenare l’interesse per la mostra). Immediatamente dopo, un arresto in Egitto (1989) legato alle mie ancor fresche frequentazioni politiche e la sua ampia diffusione mediatica scatenò a sua volta non solo una certa quantità di lettere anonime (a cui reagìi inviandone alcune anch’io su me stesso, talmente esagerate da aver lo scopo di sputtanare quelle credibili e in qualche caso persino ben informate, per poi scoprire che le tesi di maggiore circolazione erano proprio quelle più inverosimili, ma questa è un’altra storia) e anche la necessità di ristrutturare la mia attività nell’arte. Cosa meglio dell’Africa, e dunque del sodalizio con Sarenco? Non saprei dire quanto l’Africa sia un ottimo luogo dove vivere, ma per scappare non ce n’è di sicuro uno migliore. So che è pronto a confermarlo Fabrizio Dal Santo, a cui la professione di avvocato non ha mai impedito, insieme a Sarenco e al sottoscritto, frequenti viaggi africani alla ricerca di un’arte che sapesse mordere il fegato caldo dell’epoca. Lì c’era dunque un altro dei miei sette padri, che aveva sempre ben chiaro che chi merita qualcosa debba almeno restituirtene un’altra di qualità consimile. Già detto quanto fosse ben poco interessato al mio presunto potere nell’arte, peraltro in fase di collasso accelerato, era invece assai stimolato dalla mia dimestichezza con l’Asia e soprattutto con i tessuti tribali e i tappeti di guerra. Dunque Sarenco mi aprì le porte dell’Africa subsahariana e io, a lui, quelle dell’Asia Centrale, dove viaggiavo da tempo alla ricerca degli scioccanti “tappeti di guerra”, da solo o con complici di lungo corso come l’artista Graziano Marini. E dove viaggio ancora per accrescere la mia collezione, che sta attualmente itinerando in vari musei degli Stati Uniti, grazie al modo in cui ha colpito e affascinato l’organizzatrice del tour americano, Annemarie Sawkins. Ma come c’ero arrivato tra Peshawar e Almaty?
Di ritorno da una tra le varie e ancora attive trasferte mediorientali (dimenticavo di dire che nel frattempo avevo anche fatto l’antiquario, attività stimolante ma quasi cessata con l’incendio della fiera antiquaria di Todi (1982), che fece scomparire non solo tutto quello che i miei soci e io avevamo lì dentro, ma soprattutto moltissime persone che non uscirono mai più da quel palazzo) vidi nei pressi della mia casa romana, per la precisione in via Piè di Marmo, una galleria nuova che si chiamava Akka e che esponeva, con rigore e raffinatezza da serraglio orientale, una serie di straordinari tessuti asiatici, sculture africane volumentriche e potenti come la Maiastra di Brancusi, bassorilievi moghol lirici e fluidi come un increspato liquido da poco scongelato. Sandro Fantò e Guglielmo Lisanti ne erano i proprietari e ripensandoci ora mi sembra di averli conosciuti da sempre, come accadde e accadrà con chiunque altro abbia stretto un’amicizia degna di tal nome.
Il mio interesse per le culture tessili dell’Asia Centrale fu dunque determinato dalla frequentazione e dai viaggi iniziati alla metà degli anni ’80 con Sandro Fantò (un altro dei miei sette padri), grande esperto di quel mondo in cui erano possibili scoperte sorprendenti, inclavate tra le incessanti guerre afghane, la rivoluzione iraniana e il crollo dell’URSS. La fascinazione per l’Africa e per la sua arte ha avuto contemporaneamente a che fare con Guglielmo Lisanti e con le sue collezioni tribali, soprattutto con quelle tessili, che mi sembravano più originali in quanto meno viste e trattate di maschere e feticci. Quando Sarenco mi mostrò un’arte contemporanea africana sostanzialmente affrancata dalle tipologie tribali e in connessione con quella di ogni altro continente, trovò dunque un terreno preparato, almeno sul piano del sentimento dell’Africa come luogo in cui semper aliquid novi.
Tornando all’Asia, da Pakistan e Afghanistan (in cui avevo fatto una sortita negli anni ’70 e qualche altra più lunga una decina di anni dopo) slittai in Asia Centrale non appena fu possibile, cioè in prossimità del collasso dell’URSS. La prima frequentazione fu soprattutto a scopo sentimentale (settore su cui non mi soffermo né qui né altrove, essendo, questa, una biografia di vicende legate all’arte, e anche per una personale discrezione sulle questioni sentimentali che resta forse la mia sola qualità borghese, sebbene tali questioni si siano intramate spesso e volentieri a viaggi e trasferimenti, e anche al lavoro sull’arte. D’altra parte non ho mai considerato il privato politico, e in fondo nemmeno estetico). Allora non mi accorsi di una scena artistica interessante, né d’altronde sarebbe stato possibile nel conservativo Uzbekistan. In Asia Centrale, nei cosiddetti cinque stan + quel Xing-Xiang sotto schiaffo cinese, ho invece cercato i feltri antichi, che Sandro mi aveva fatto mostrare nei bazar di Peshawar, in specie nel negozio di Ghulam Sakhi (tra i miei sette padri quello con la barba più lunga) e di cui avevo già formato una piccola collezione, prima dell’incontro, e qualche viaggio, con Sergio Poggianella, che mi proporrà di esporla nella sua nuova fondazione milanese (Contemporanea) nel 2000. Dell’esistenza di un’arte contemporanea forte e motivata mi erudì invece ampiamente Valeria Ibraeva, allora (anni ’90) direttrice del Soros Center for Contemporary Art dell’Asia Centrale e in continuo viaggio tra Almaty (Kazakhstan) e Bishkek (Kirgizistan). Con Valeria nacque una complicità che non è ancora terminata e che a quell’epoca si concretizzò in frequenti viaggi centroasiatici, da Bishkek a Karaganda a Schymkent. A Almaty conobbi anche Renato Sala e Jean Marc Dion, che alla fine degli anni ’80 si erano trasferiti dal Vietnam al Kazakhstan. Da climatologo (Sala) e specialista di lingue orientali (Dion), a autorità riconosciute nel settrore petroglifi, si posizionò dunque il loro cambio di mestiere oltreché di residenza. Fu per me assai produttivo qualche viaggio nella steppa a scoprir petroglifi e soprattutto molte discussioni nel loro studio all’Accademia delle Scienze di Almaty, dove già Eisenstein montò il suo Ivan il Terribile. Qualcosa di simile, sebbene di minor prospettiva, avvenne nello stesso periodo in Pakistan, dove attraverso Salima Hashmi, artista e gallerista, incorociai una scena d’arte contemporanea sorprendente e all’insegna di un vero e proprio matriarcato, su cui allora dominavano artiste a cui sono rimasto legato, come Adeela Suleyman. Alcuni di questi incontri furono provocati da Martina Corgnati, con cui stabilì un sodalizio che non si è più interrotto, giacchè ha a che fare con gli stessi luoghi e i medesimi interessi.
Nello stesso periodo, fu attraverso l’amicizia e la frequentazione di Gianni Emilio Simonetti, con cui m’incontravo regolarmente nei più improbabili bar della periferia milanese (li sceglieva lui) che calibrai meglio la questione delle “avanguardie negative”, di cui egli resta il più radicale protagonista. Per ciò che concerne quelle che chiamo dunque “avanguardie negative” (in quanto più atte al sabotaggio che alla progettazione, o tutt’al più alla progettazione del sabotaggio) ha naturalmente contato anche la frequentazione di Julien Blaine, performer a cui l’inclusione nella poesia visiva sta stretta non meno che a Sarenco, e Francesco Conz, a cui la categoria di “collezionista” è in fondo giusta ma non meno riduttiva. Con tutti costoro, legati in un modo o nell’altro all’avanguardia, che costituiva il nodo dei rispettivi interessi culturali, ho organizzato e curato mostre e cataloghi di poesia visiva, fluxus, lettrismo…un po’ dappertutto, ma soprattutto (anni ’90) nella Rocca di Umbertide, fino a quel momento nota come prigione di Braccio Fortebraccio da Montone.